Adozione di maggiorenne: quale cognome porterà l’adottando?

Cognome dopo adozione figlio maggiorenne – Può essere autorizzata la posposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottanda, in deroga all’art. 299 c.c. in considerazione di una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto dell’adozione di maggiorenne, volta a un nuovo impianto giuridico di riconoscimento del valore dell’identità della persona.

Tribunale di Roma Sentenza 141/2022

L’adottante può chiedere, in deroga all’art. 299 c.c., che il proprio cognome sia posposto a quello dell’adottando in quanto quest’ultimo si è sempre identificato con il cognome che porta sin dalla nascita.

Lo scopo originario dell’adozione del maggiorenne era la trasmissione del proprio patrimonio e del proprio cognome. Nel tempo l’evoluzione dei rapporti familiari ha modificato la finalità della normativa prevista per l’adozione dei maggiorenni dagli articoli 291 ss del codice civile, ora ritenuta certamente applicabile anche se l’interesse dell’adottante ha solo indirettamente finalità patrimoniali, essendo – effettivamente – l’interesse al riconoscimento di un rapporto umano di tipo familiare un fine lecito e tutelabile, ai sensi dell’art. 2, 31 e 32 della Costituzione.

In tale prospettiva, aggiornata e orientata alle mutate esigenze delle persone, l’istituto dell’adozione del maggiorenne perde il presupposto di natura patrimoniale che connota l’impianto normativo di riferimento, diventando l’aspetto patrimoniale una mera conseguenza rispetto agli obblighi di solidarietà che incombono al genitore adottivo anche del maggiorenne.

L’interpretazione del 1983

Nell’83, quando fu modificato l’art. 299 c.c., rispetto alla formulazione precedente venne previsto l’inserimento del cognome dell’adottante prima di quello dell’adottato. Lo scopo, all’epoca, era meramente pubblicitario: l’anteposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottato avrebbe reso pubblico e certo il nuovo stato dell’adottato, e questo esclusivamente a fini patrimoniali e successori. Le motivazioni che giustificavano un’interpretazione rigida di tale norma hanno perso forza. Il primo cognome non è più indicativo della stirpe familiare.

La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 286/2016, è intervenuta sul terzo comma dall’art. 299 c.c. stabilendo che è possibile, in caso di adozione di maggiorenni da parte di due soggetti, utilizzare il cognome di entrambi, secondo l’ordine da loro richiesto.

Un’interpretazione dell’art. 299 c.c. che voglia essere conforme alle norme costituzionali poste a presidio di diritti inviolabili della persona deve quindi adeguarsi a tali principi e soprattutto alla modifica della funzione dell’istituto dell’adozione del maggiorenne. Da tutela della stirpe e del patrimonio dell’adottante al riconoscimento giuridico di un rapporto umano di tipo familiare tutelabile ai sensi dell’art. 31 e 32 Cost. nonché di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, di una storia personale, di adottante e adottando.

Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 299 c.c. ne consente, quindi, una deroga, tenuto conto sia della nuova funzione che assolve l’istituto dell’adozione del maggiorenne sia del nuovo impianto giuridico di riconoscimento del valore dell’identità della persona, dove l’attribuzione del cognome paterno dopo il nome ha perso completamente di significato, prevalendo altri interessi di rango costituzionale.

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Quando può essere revocata l’assegnazione della casa familiare?

Revoca dell’assegnazione della casa familiare – Presupposto inderogabile per l’assegnazione della casa coniugale è la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti. La convivenza deve essere stabile sia pure con eventuali sporadici allontanamenti per brevi periodi del figlio maggiorenne. Ritorni sporadici di quest’ultimo, anche se regolari, sono riconducibili ad un rapporto di ospitalità. Ai fini dell’assegnazione al coniuge già collocatario è essenziale che il figlio sia effettivamente presente nella casa per un periodo prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo.

Ma quando si può parlare di convivenza affinché ciò sia rilevante ai fini dell’assegnazione della casa familiare? Secondo la Suprema Corte, deve trattarsi di stabile dimora del figlio maggiorenne, sia pure con eventuali sporadici allontanamenti per brevi periodi. Non può essere considerata convivenza se il figlio maggiorenne raramente anche se regolarmente torna a casa.

Precisa ancora la Corte che deve sussistere un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione che, ancorché non quotidiana, sia compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché vi faccia ritorno appena possibile e l’effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo.

Il caso è quello di un ragazzo, nato nel 1997, che svolgeva un percorso di formazione professionale all’estero per pilota di linea, specialistico ed impegnativo, che lasciava presumere da un lato un trasferimento definitivo nel paese ospitante e dall’altro rientri a casa non definibili, né programmabili, né frequenti.

Nel primo e nel secondo grado di giudizio l’assegnazione della ex casa coniugale alla madre era stata revocata.

Tale decisione viene confermata dalla Suprema Corte di Cassazione che con l’ordinanza 27374 del 19.09.2022 ha rigettato il ricorso proposto dalla signora Mevia.

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza clicca qui:

Cassazione civile, Sez. VI ordinanza-27374 del 19.09.2022

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