IL FIGLIO MAGGIORENNE HA L’ONERE DELLA PROVA PER CONSERVARE IL MANTENIMENTO

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La rinuncia all’assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude il diritto all’assegno sociale

Cassazione civile sez. lav., 01/12/2023, n.33513
La rinuncia all’assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude il diritto all’assegno sociale

Il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dall’assenza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge.

Restano irrilevanti eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, quali quelli derivanti dall’assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato, e senza che tale mancata richiesta possa essere equiparata all’assenza di uno stato di bisogno.

Pertanto non essendo rilevante che lo stato di bisogno sia incolpevole, la condizione legittimante per l’accesso alla prestazione previdenziale, rileva nella sua mera oggettività.

Il caso

Il coniuge obbligato aveva proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Campobasso che, in riforma della sentenza del Tribunale di Campobasso, aveva respinto la domanda del ricorrente volta al riconoscimento giudiziale dell’assegno sociale, ritenendo insussistente lo stato di bisogno per avere l’interessato rinunciato ad un assegno di mantenimento adeguato in sede di separazione consensuale con la moglie, così volontariamente realizzando le condizioni per trasferire sull’ente pensionistico, e dunque sulla collettività, l’obbligo di mantenimento gravante su altri soggetti.

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Il bambino nato da maternità surrogata ha gli stessi diritti di quello nato in condizioni diverse?

Bambino nato da maternità surrogata – Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento. Il riconoscimento è anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. Ha gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse. Questi gli sono garantiti attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983.

Cass. civ., sez. Unite, sent., 30 dicembre 2022, n. 38162.

Il caso

Il caso è quello di due uomini, di cittadinanza italiana e uniti in matrimonio in Canada, i quali riuscirono, tramite fecondazione in vitro, a coronare il sogno di diventare genitori. Uno dei due uomini forniva i propri gameti, che uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice venivano poi trasferiti, in fase embrionale, nell’utero di una diversa donna. Quest’ultima, non anonima, portava a termine la gravidanza e partoriva il bambino.

Il bambino, nato nel 2015, veniva iscritto nell’atto di nascita come figlio del solo padre biologico. La Corte Suprema della British Columbia, in accoglimento del ricorso della coppia attribuiva lo stato giuridico di figlio di entrambi. Conseguentemente, la coppia richiedeva la rettifica dell’atto di nascita del bambino anche in Italia al fine di ottenere quanto già disposto dall’ordinamento canadese. L’ufficiale di stato civile italiano si opponeva stante la preesistenza di un atto di nascita già trascritto e l’assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della Suprema Corte di Cassazione. Adita la Corte d’appello di Venezia, la coppia otteneva il riconoscimento della sentenza canadese in Italia.

Il ricorso e altre precisazioni

Proponeva ricorso per cassazione, avverso tale decisione della Corte Veneziana, il Ministero dell’Interno ed il Sindaco di Verona. La Prima Sezione civile, preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore d’intenzione, dubitando della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali, sollevava incidente di costituzionalità, questione dichiarata però inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 33/2021. Le Sezioni Unite investite della questione, con la sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162, hanno cassato l’ordinanza impugnata e, decidendo nel merito, hanno rigettato  la domanda di riconoscimento del provvedimento straniero.

L’ordinamento italiano, ha precisato la corte, non consente il ricorso ad operazioni di maternità surrogata. L’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà, è pratica  vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6.

La Corte ha affermato con questa decisione il principio secondo cui “poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero.

Precisa la Corte che comunque anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale, ed ha gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse che gli sono garantiti attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983.

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Adozione di maggiorenne: quale cognome porterà l’adottando?

Cognome dopo adozione figlio maggiorenne – Può essere autorizzata la posposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottanda, in deroga all’art. 299 c.c. in considerazione di una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto dell’adozione di maggiorenne, volta a un nuovo impianto giuridico di riconoscimento del valore dell’identità della persona.

Tribunale di Roma Sentenza 141/2022

L’adottante può chiedere, in deroga all’art. 299 c.c., che il proprio cognome sia posposto a quello dell’adottando in quanto quest’ultimo si è sempre identificato con il cognome che porta sin dalla nascita.

Lo scopo originario dell’adozione del maggiorenne era la trasmissione del proprio patrimonio e del proprio cognome. Nel tempo l’evoluzione dei rapporti familiari ha modificato la finalità della normativa prevista per l’adozione dei maggiorenni dagli articoli 291 ss del codice civile, ora ritenuta certamente applicabile anche se l’interesse dell’adottante ha solo indirettamente finalità patrimoniali, essendo – effettivamente – l’interesse al riconoscimento di un rapporto umano di tipo familiare un fine lecito e tutelabile, ai sensi dell’art. 2, 31 e 32 della Costituzione.

In tale prospettiva, aggiornata e orientata alle mutate esigenze delle persone, l’istituto dell’adozione del maggiorenne perde il presupposto di natura patrimoniale che connota l’impianto normativo di riferimento, diventando l’aspetto patrimoniale una mera conseguenza rispetto agli obblighi di solidarietà che incombono al genitore adottivo anche del maggiorenne.

L’interpretazione del 1983

Nell’83, quando fu modificato l’art. 299 c.c., rispetto alla formulazione precedente venne previsto l’inserimento del cognome dell’adottante prima di quello dell’adottato. Lo scopo, all’epoca, era meramente pubblicitario: l’anteposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottato avrebbe reso pubblico e certo il nuovo stato dell’adottato, e questo esclusivamente a fini patrimoniali e successori. Le motivazioni che giustificavano un’interpretazione rigida di tale norma hanno perso forza. Il primo cognome non è più indicativo della stirpe familiare.

La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 286/2016, è intervenuta sul terzo comma dall’art. 299 c.c. stabilendo che è possibile, in caso di adozione di maggiorenni da parte di due soggetti, utilizzare il cognome di entrambi, secondo l’ordine da loro richiesto.

Un’interpretazione dell’art. 299 c.c. che voglia essere conforme alle norme costituzionali poste a presidio di diritti inviolabili della persona deve quindi adeguarsi a tali principi e soprattutto alla modifica della funzione dell’istituto dell’adozione del maggiorenne. Da tutela della stirpe e del patrimonio dell’adottante al riconoscimento giuridico di un rapporto umano di tipo familiare tutelabile ai sensi dell’art. 31 e 32 Cost. nonché di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, di una storia personale, di adottante e adottando.

Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 299 c.c. ne consente, quindi, una deroga, tenuto conto sia della nuova funzione che assolve l’istituto dell’adozione del maggiorenne sia del nuovo impianto giuridico di riconoscimento del valore dell’identità della persona, dove l’attribuzione del cognome paterno dopo il nome ha perso completamente di significato, prevalendo altri interessi di rango costituzionale.

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Quando può essere revocata l’assegnazione della casa familiare?

Revoca dell’assegnazione della casa familiare – Presupposto inderogabile per l’assegnazione della casa coniugale è la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti. La convivenza deve essere stabile sia pure con eventuali sporadici allontanamenti per brevi periodi del figlio maggiorenne. Ritorni sporadici di quest’ultimo, anche se regolari, sono riconducibili ad un rapporto di ospitalità. Ai fini dell’assegnazione al coniuge già collocatario è essenziale che il figlio sia effettivamente presente nella casa per un periodo prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo.

Ma quando si può parlare di convivenza affinché ciò sia rilevante ai fini dell’assegnazione della casa familiare? Secondo la Suprema Corte, deve trattarsi di stabile dimora del figlio maggiorenne, sia pure con eventuali sporadici allontanamenti per brevi periodi. Non può essere considerata convivenza se il figlio maggiorenne raramente anche se regolarmente torna a casa.

Precisa ancora la Corte che deve sussistere un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione che, ancorché non quotidiana, sia compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché vi faccia ritorno appena possibile e l’effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo.

Il caso è quello di un ragazzo, nato nel 1997, che svolgeva un percorso di formazione professionale all’estero per pilota di linea, specialistico ed impegnativo, che lasciava presumere da un lato un trasferimento definitivo nel paese ospitante e dall’altro rientri a casa non definibili, né programmabili, né frequenti.

Nel primo e nel secondo grado di giudizio l’assegnazione della ex casa coniugale alla madre era stata revocata.

Tale decisione viene confermata dalla Suprema Corte di Cassazione che con l’ordinanza 27374 del 19.09.2022 ha rigettato il ricorso proposto dalla signora Mevia.

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza clicca qui:

Cassazione civile, Sez. VI ordinanza-27374 del 19.09.2022

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Modifica delle condizioni economiche dei coniugi separati e divorziati: cosa dicono le Sezioni Unite

Le Sezioni Unite Civili, decidendo su questione di massima di particolare importanza, in materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, hanno affermato che, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, vanno operate le seguenti distinzioni:

a) la «condictio indebiti», ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, opera in presenza di una rivalutazione della condizione «del richiedente o avente diritto», ove si accerti l’insussistenza «ab origine» dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;

b) la «condictio indebiti» non opera, e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, «delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)», sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;

c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di una modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità.

Cass. Civ. Sezioni Unite 08.11.2022 n. 32914

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Mantenimento del figlio maggiorenne: è obbligatorio?

L’obbligo del genitore separato o divorziato di concorrere al mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta.

La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto.

Detta valutazione, pur dovendo riguardare senz’altro la complessiva condotta tenuta da parte dell’avente diritto dal momento del raggiungimento della maggiore età in poi, non può prescindere dal pregiudiziale accertamento circa l’assolvimento, da parte del genitore gravato, dell’obbligo di mantenimento. Ciò in quando l’adempimento di tale dovere costituisce la condizione imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne.

Cass. Civile 7.11.2022 n. 32727

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In cosa consiste l’assegno divorzile?

Condizione per l’attribuzione dell’assegno divorzile in funzione compensativa non è il fatto in sé che uno dei coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure domestiche e dei figli, né di per sé il divario o lo squilibrio reddituale tra gli ex coniugi o l’elevata capacità economica dell’uomo o della donna. Ai fini della funzione compensativa dell’assegno divorzile la scelta di dedicarsi alla famiglia assume rilievo nei limiti in cui sia all’origine di aspettative professionali sacrificate e della rinuncia a realistiche occasioni professionali e reddituali. Necessario che la parte richiedente l’assegno divorzile dia prova di aver rinunciato a precise e concrete prospettive di lavoro e di carriera.

Cass. civ., ord., 13 ottobre 2022, n. 29920

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Figlio Maggiorenne fuori sede: come funziona il mantenimento?

Il genitore collocatario del figlio studente fuori sede può ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento posto a carico dell’altro genitore, perchè deve far fronte all’aumento delle spese sostenute per gli studi universitari del ragazzo.

Sulla legittimazione della richiesta e sull’entità dell’importo non ha alcuna rilevanza la cessata coabitazione e la sporadicità dei rientri a casa, se il figlio fa comunque riferimento al genitore per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze. A precisarlo è la Cassazione, secondo la quale cessazione della coabitazione non fa venir meno l’esigenza di mantenimento del figlio.

Per la Suprema corte, infatti, i rientri saltuari a casa non comportano un mutamento negli assetti familiari, né il venir meno di un legame con il genitore, il quale resta «la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio», provvedendo «materialmente alle sue esigenze».

Cassazione civile sez. I – 31/12/2020, n. 29977

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Separazione: differenza tra la coabitazione e la riconciliazione

La coabitazione dopo la separazione non costituisce ricostituzione del consorzio familiare.

Cass. civ., sez. VI – 1, ord., 23 settembre 2022, n. 27963

I coniugi Tizio e Caia si separarono consensualmente nel 2009.

Qualche mese dopo decisero di frequentarsi di nuovo e per 10 mesi vissero insieme nella stessa casa.

Le cose non andarono però per il verso giusto e si lasciarono di nuovo. Qualche anno dopo e precisamente nel 2020 il Tribunale di Savona emetteva la sentenza di divorzio ritenendo di non accogliere la tesi di Caia la quale aveva sostenuto il venir meno degli effetti della separazione in ragione della asserita ricostituzione del consorzio familiare.

Il Tribunale poneva a carico di Tizio il pagamento della somma di Euro 600,00 mensili, quale contributo per il mantenimento di Caia.

Caia proponeva appello e la Corte di appello di Genova rigettava l’appello principale e l’appello incidentale proposto da Tizio.

In Appello i giudici sottolinearono che a sostegno della sua domanda  «Caia non ha fornito la prova della ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, ovvero la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e tali da concretizzarsi in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione». Più precisamente, dalla ricostruzione dei rapporti tra i coniugi dopo la separazione consensuale secondo la Corte d’Appello risultava che tale condizione di riconciliazione non fosse stata raggiunta in nessun momento.

Col ricorso in Cassazione Caia sottopose nuovamente ai giudici la tesi della riconciliazione, sostenendo che «la coabitazione e il ripristino del consortium vitae tra lei e il coniuge erano ripresi subito dopo la separazione, per iniziativa del marito e per un periodo continuativo e ininterrotto di circa dieci mesi» e aggiungendo poi che «le nuove liti e il prendersi e lasciarsi si riferivano ad un periodo successivo a quello dei dieci mesi in cui era ripresa la coabitazione e la comunione materiale e spirituale come coniugi».

I Giudici di Cassazione con l’ordinanza del 23 settembre 2022 hanno confermato le valutazioni e la decisione dei giudici di secondo grado ritenendo che «il lungo periodo di convivenza dove Caio si era trasferito a viver»,  «le trascrizioni di messaggi e le registrazioni di conversazioni intervenute tra i due coniugi fino alla data dell’instaurazione del giudizio di divorzio», pur consentendo di ritenere con certezza che «i coniugi avevano continuato a frequentarsi, prendendosi e lasciandosi diverse volte “,  non potevano comunque integrare alcuna riconciliazione.

A conferma anche il contenuto dei messaggi intercorsi tra i due dai quali è emerso secondo i Giudici, «la mancanza di volontà di ricostruzione del rapporto coniugale da parte della donna, che espressamente faceva riferimento all’infedeltà del marito e al desiderio di non essere più contattata, mentre dal tenore delle conversazioni tra moglie e marito emergeva l’accesa conflittualità tra loro, anche nei brevi periodi di incontro».

i Giudici della Cassazione hanno ritenuto che: «le prove addotte dalla donna non dimostrano in modo certo ed incontrovertibile l’avvenuta riconciliazione», che peraltro, viene precisato, «non consiste nel mero ripristino della situazione quo ante, ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, che sono tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzano in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione».

La richiesta di Caia di un assegno divorzile più alto, giustificato  dal fatto di «avere lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia» e a causa delle sue precarie «condizioni di salute»,  non ha trovato accoglimento ed i Giudici della Cassazione, nel confermare l’importo di € 600,00, hanno ribadito che i giudici del secondo grado nel decidere avevano tenuto conto di tali circostanze rilevanti oltre a quelle relative ad altri fattori  ossia «la durata – soli sette anni – del matrimonio; l’età della donna, affetta da grave malattia; la situazione economica dell’uomo, caratterizzata da un peggioramento del reddito a causa della crisi economica derivante dalla pandemia».

 

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