Il caso è quello di un bambino vittima di maltrattamenti subiti tra le mura domestiche.
Il bambino è stato dichiarato adottabile in primo grado, in secondo grado tale decisione è stata confermata e disposto il mantenimento del suo collocamento nella famiglia ove già si trovava a scopo adottivo, con interruzione dei rapporti con i genitori e con i parenti.
La madre impugna la decisione con ricorso in Cassazione asserendo che la Corte di appello si sarebbe limitata ad utilizzare come presupposto della pronuncia le valutazioni già compiute in primo grado. Secondo la ricorrente non sarebbe state chiarite le “situazioni di grave pregiudizio per il minore”, “le gravi carenze della madre” ed “i progetti di sostegno e di recupero” messi in atto in prime cure dal Tribunale per salvaguardare le capacità dei genitori.
A parere della stessa l’episodio di maltrattamento e le carenze evidenziate nel comportamento materno, durante il periodo in cui lei ed il minore erano stati collocati in luogo protetto non sono sufficienti a giustificare la dichiarazione dello stato di adottabilità.
Infine si duole che tale decisione sia stata presa senza tenere conto del fatto che il bambino era stato allontanato dalla madre in tenera età e che non sia stata accertata la eventuale possibilità di recupero delle competenze genitoriali della madre.
Si duole che non siano state adottate in concreto tutte le misure necessarie ed adeguate affinché il minore potesse condurre una vita familiare normale all’interno della famiglia di origine e sostiene che la Corte distrettuale abbia tutelato esclusivamente il legame tra il minore e la famiglia adottiva e non quello tra il minore e la famiglia biologica e non abbia tenuto in conto la situazione personale della madre e non abbia valorizzare i suoi progressi morali e materiali, senza però indicare in cosa siano consistiti e quando ed in che termini siano stati sottoposti al giudice del gravame.
La Suprema Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 13 luglio 2021, n. 19946), dichiara inammissibile il ricorso facendo riferimento all’art. 1 della legge 184 del 1983, precisa che «il diritto del minore a vivere e crescere nella propria famiglia di origine» è possibile «fino a che non sussiste una situazione di abbandono, che consiste nella mancanza, grave e irreversibile, di assistenza materiale e morale». E in questa prospettiva si collocano gli elementi posti in evidenza in Appello, ossia «la assenza di idoneità genitoriale» della donna, «lo stato di abbandono del minore» e «la sostanziale assenza di rapporti tra madre e figlio».
Osservano i giudici, che «il minore, ancora neonato di pochi mesi di vita, è stato vittima di un grave episodio di maltrattamenti, che gli ha causato lesioni cerebrali conseguenti ad eventi post traumatici, denunciato dalla Azienda sanitaria» e che ne è conseguito «l’avvio di un procedimento penale a carico di entrambi i genitori».
«Il successivo intervento del Tribunale per i minorenni e dei Servizi Sociali ha consentito di accertare la sussistenza di una complessiva situazione di grave pregiudizio per il minore, in ragione della situazione familiare e delle riscontrate carenze e fragilità genitoriali, in particolare della madre». E «nel periodo in cui la madre ed il figlio erano stati accolti in comunità, la donna ha mostrato gravi carenze nella cura e nella soddisfazione dei bisogni primari del bambino».
Per quanto concerne poi l’esame del nucleo parentale, si è ravvisata «la inidoneità sia dei nonni paterni che della nonna materna a prendersi cura del minore, che non avevano più incontrato dopo la nascita».
Ciò che invece va tenuto in considerazione, osservano i Giudici, è «il positivo inserimento del minore in ambito etero-familiare» con conseguente «creazione di un forte senso di attaccamento e di appartenenza al contesto familiare degli affidatari». Ciò comporta che «la mancanza di un ambiente familiare idoneo non può essere ovviata se non per il tramite della dichiarazione di adottabilità», confermata ora dalla Cassazione.